“MISERICORDIA VOGLIO E NON SACRIFICI”. La misericordia nella nostra vita di cristiani
Il prossimo 8 dicembre inizierà il Giubileo straordinario della Misericordia
in occasione della conclusione del Concilio Vaticano II.
Sul Giubileo e sulla via della Misericordia per la Chiesa abbiamo chiesto un contributo
a Mons. Antonio Cecconi, già vicario diocesano e delegato al recente Convegno fiorentino sul Nuovo Umanesimo.
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Il monito “misericordia voglio e non sacrifici” è basato sul testo di Osea 6,6. Il profeta chiede a Israele di liberarsi da una religiosità effimera, non radicata nella conoscenza e nell’amore, incapace di vera relazione col Dio che fascia le ferite del suo popolo e si attende che produca frutti di giustizia. È proprio Matteo, il vangelo più ricco di citazioni veterotestamentarie, a riprendere e attualizzare la citazione di Osea per due volte: in risposta ai farisei che criticano Gesù perché mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori (Mt 9,13) e per difendere i discepoli accusati dai farisei di aver strappato le spighe in giorno di sabato (Mt 12,7).
Perché Dio preferisce la misericordia al sacrificio? Non si tratta di una risposta brillante alle critiche dei farisei, Gesù intende mettere a fuoco il senso della relazione fondamentale con Dio del credente e dell’intero popolo d’Israele. Poiché il sacrificio è unilaterale, va dall’uomo alla divinità e non viceversa, esprime una relazione destinata a restare incompleta, il desiderio di acquisire meriti facendo qualcosa “per Dio” e così tirarlo dalla propria parte (col rischio, se qualcosa non va secondo i propri desideri, di accusare Dio stesso). La misericordia, al contrario, è tutto ciò che Dio fa ed è per il suo popolo e per ogni credente, è il suo amore viscerale e “uterino”, la cura e il dono che soccorre, guarisce, solleva, consola, riabilita e che si aspetta, come risposta, un uomo a sua volta misericordioso con i propri simili, un popolo in cui crescono spazi e occasioni di misericordia. La parabola della misericordia non è che un modo per raccontare Gesù che “ancora oggi come buon samaritano viene accanto a ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito…”.
La Chiesa, per diventare chiesa della misericordia, ha bisogno di riconoscersi come chiesa dalla misericordia, destinataria dell’amore misericordioso – accogliente, curante, sanante, elevante… – di Dio così come Gesù ce lo rivela, per farsi a sua volta soggetto di misericordia, per uscire dal tempio e farsi buona samaritana per le vie del mondo e (prima ancora) per diventare al proprio interno comunità di salvati in virtù della misericordia divina. Il monito di Gesù in casa di Matteo è perché “non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”; i discepoli che colgono le spighe in giorno di sabato sono la piccola comunità di seguaci di un Maestro che non ha neanche una pietra su cui posare il capo.
Sia il bisogno di un perdono e di una salvezza che si possono solo invocare e ricevere e mai darsi da soli, sia la precarietà dell’esistenza materiale che porta ad affidarsi alla provvidenza e in casi estremi a infrangere regole cultuali sono due situazioni che aiutano l’autocomprensione della Chiesa al suo interno. Il vissuto di chi è parte attiva della comunità non può prescindere da un dato di partenza: scoprirsi “contagiati” dalla misericordia divina, i primi caricati sulla cavalcatura del samaritano e condotti a quella locanda la cui insegna è “tutti-accoglie” (cfr. il testo originale di Luca 10,34).
La chiesa dei “sacrifici” (cioè dei sacramenti, dei riti, dei pontificali, delle feste patronali, delle processioni, delle benedizioni, dei pellegrinaggi, dei rosari, dei tridui, delle novene…) o esprime quella misericordia, un amore sanante mosso dal desiderio insopprimibile di chinarsi sulle ferite dell’umanità, oppure sarà la chiesa del sacerdote e del levita che devono mettere al primo posto “i diritti di Dio” e quindi si sentono autorizzati o addirittura obbligati a non rischiare che sia lesa la purità cultuale nei contatti col “mondo”.
E la chiesa in uscita, che passa lungo i campi e ha bisogno di strappare le spighe per mettere qualcosa sotto i denti non potrebbero oggi essere gli evangelizzatori, i catechisti, gli animatori dei giovani e i gli operatori della Caritas che hanno bisogno delle calorie necessarie per affrontare la sfida di una pastorale di frontiera? Per questi e tanti altri, la misericordia che il Signore preferisce ai sacrifici non è certamente la tentazione di fare a meno dei Sacramenti e della preghiera personale, ma la capacità di trovare nutrimento anche nell’incontro con la gente, nell’accogliere e lasciarsi provocare e alimentare dalle sofferenze e dai sogni dei piccoli e dei poveri, dall’ansia educativa di tanti genitori, dal desiderio di giustizia di un mondo del lavoro a precarietà crescente, dalle famiglie con grossi carichi assistenziali (un figlio disabile, un anziano infermo), dagli immigrati che faticano a inserirsi (e noi ad accoglierli), dai rom che gli amministratori locali hanno pensato bene di cacciare dai loro insediamenti precari, dai detenuti in faticosa ricerca di un recupero di dignità, da tutti quelli che fanno la fila per un pacco alimentare o il pagamento di una bolletta… La pastorale “ordinaria” può trovare alimento e ricchezza da questi e da altri incontri “sulla strada”? Riusciremo ad allestire qualcuno degli “ospedali da campo” su cui tante volte ritorna papa Francesco?
don Antonio Cecconi