Gli adulti…: questi sconosciuti

“quelli di oggi non sono più quelli di una volta”

[articolo in versione estesa]

Su Don Armando Matteo, docente di teologia, esperto in sociologia e per anni assistente FUCI,  abbiamo pubblicato nell’ultimo numero di InformAC un articolo sulla sua relazione “La periferia esistenziale dei giovani d’oggi”, tenuta al convegno per responsabili regionali a Calambrone il 3-4 ottobre. Nella consapevolezza che le sue parole, a volte provocatorie o sferzanti,  ci impegnano per una rinnovata responsabilità educativa, concludiamo la seconda parte del suo intervento su “Riscoprire il mestiere dell’adulto”; ricordiamo che l’autore ha pubblicato l’anno passato un efficace e pungolante saggio L’ADULTO CHE CI MANCA – Perché è diventato così difficile educare e trasmettere la fede, per la Cittadella Editrice.

Gli adulti ci sono, di per sé, eccome! Come si legge nell’ultimo rapporto Istat sulla demografia, di 60,8 milioni di abitanti, gli ultra 65enni (21,7 %) superano i meno di 15 anni (13,8%) -cioè in parole povere i nonni superano i nipoti-, la media della popolazione è di 44 anni; la speranza di vita alla nascita è di 84,9 anni per le donne e di 80,2 per gli uomini; ma altri dati significativi sono anche che l’Italia è prima in Europa per coppie senza figli, aumentate nell’ultimo decennio del 40%, intanto l’età media del parto si alza a 31,5 anni.

Don Armando, però, precisa che “gli adulti di oggi non sono più quelli di una volta”; la generazione nata negli anni dal 1946 al 1964 ha finito per cambiare radicalmente l’identità di adulto ancora presente nell’immaginario.

«L’indicazione della fascia 1964-77 -afferma don Armando- si deve a Zygmunt Bauman in Vite che non possiamo permetterci (2011). Nei fatti si tratta della generazione che in pochi anni è passata dall’avere nulla all’avere tutto, attraverso cambiamenti tecnologici e culturali che, oltre ad allungare l’aspettativa di vita, hanno prodotto un senso di fiducia nel fare e di euforia nel vivere la propria giovinezza che ha finito per incarnarsi nel mito del giovanilismo a tutti i costi. È la generazione del ’68 e del ’77. La generazione che ha sganciato il concetto di libertà da ogni vincolo, anche da quelli che nascono dall’umanità stessa, come la fragilità, la malattia, il dolore, la morte. La generazione degli eterni giovani, di chi non vuole invecchiare perché ha riposto nelle capacità prestazionali della gioventù tutte le proprie aspettative. Non è un caso che proprio in questi anni si siano espansi e consolidati (al di là di ogni logica) miti letterari come quelli di Peter Pan e del Piccolo principe».

Si diventa vecchi solo a 84 anni, afferma provocatoriamente don Armando.

In tale prospettiva gli adulti si sono lasciare irretire dal mito della giovinezza e paradossalmente hanno finito per non lasciare spazio nella società ai giovani e soprattutto hanno finito per porli davvero ai margini della loro attenzione e sensibilità: nella scuola, come nel mondo del lavoro, coma a volte anche nella pastorale. Tutto nasce appunto dal mito della giovinezza, così idolatrato da pensare che che chi la possiede (spontaneamente, come i giovani) abbia già ‘tutto’ e dunque non abbia bisogno di essere messo al centro.

Eppure è proprio dell’adultità la saggezza, eppure la natura ci ha creati proprio per diventare adulti, non per restare bloccati alla stagione di ‘giovani’.

Cercando di ricostruire una dimensione autenticamente adulta, Matteo passa a delineare il profilo dell’adulto. L’adulto è colui che è saldo, ben piantato in terra, ha equilibrio; l’adulto è colui che sa dimenticarsi per gli altri (la figura del Samaritano è la figura dell’adulto per eccellenza).

Non si tratta solo di riconvertire l’immagine degli adulti, si tratta anche di essere consapevoli che questa immagine è fortemente convergente con le esigenze del mercato: basti pensare alla spesa dei prodotti antiage o allo sdoganamento nell’abbigliamento di colori vivaci per adulti.

Ma i giovani -la “prima generazione incredula”  (per ricordare un altro saggio dell’autore)- è legata indissolubilmente proprio alla generazione degli adulti cui si è accennato. E non c’è sfida educativa vincente, non c’è recupero del pianeta giovani senza quello degli adulti, anzi: “chi pensa che il massimo sia la giovinezza -taglia corto don Armando- non può educare!”.

Essere adulti, prosegue, significa saper tagliare con il mondo precedente; “crescere è fare il lutto con il mondo che si è abbandonato”, “voler rimanere giovani significa non avere e non poter proporre progetti”; specularmente crescere (per un giovane) significa poter prendere a modello la figura dell’adulto-padre.

Più specificamente sul piano della fede, “il rischio è che gli adulti ancora riempiano le chiese, paghino l’8 per mille, ma i loro occhi non comunichino più la fede”.

La sfida, tuttavia, conclude don Armando, è ancora possibile.

Il mestiere di adulto deve, però, sapersi sostanziare di tre elementi: autorità, amore e desiderio.

Riscoprire l’autorità (non il potere ma il servizio dell’autorità) dopo cinque secoli che la civiltà occidentale l’ha cancellata “significa assumersi fino in fondo il compito educativo delle nuove generazioni: impegnarsi per facilitare il loro ingresso nel mistero della vita, che è sorretto  anche da leggi e norme”, significa rispondere della società ai figli e ai figli della società. Significa allearci, non contrastare, con le leggi elementari della vita come la limitatezza, la debolezza, la vecchiaia, la morte, con uno sguardo accogliente verso tutte le manifestazioni (e stagioni) della vita stessa. L’educazione -ricorda don Armando- è  il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità senza lasciare i giovani in balia di se stessi.

Per ridare senso all’amore, poi, bisogna recuperare il senso della prossimità (pare che dopo la morte di Dio, il secolo passato abbia sancito anche la morte, il disinteresse per il prossimo): “pure nella grande molteplicità di occasioni di stare con gli altri, di fatto viviamo sempre più soli, da isolati”. Ciò porta alla perdita del senso di comunità, a partire da quella più prossima della famiglia e del senso di paternità e maternità: più centrata a gratificare l’idolo bambino, garantendo “una costante ed efficace manutenzione dei suoi bisogni e del risparmio di ogni fatica” obbedendo ad ogni suo capriccio, che non a  farlo crescere umanamente.

Ma la crisi d’amore è anche crisi di desiderio, non certo come pulsione appetito o capriccio, ma intesa come capacità (o incapacità) a promuovere desiderio di lavoro, di progetto, di slancio, di creatività, di amore, di scambio, di apertura, di generazione. Il mercato riduce l’individuo a consumatore e spegne il senso pieno e autentico del desiderio in possesso materiale, rivolto a una gratificazione narcisistica.

La conclusione è, malgrado l’analisi impietosa, costruttiva: gli adulti che riscoprono l’adultità è come se fossero liberati dall’incantamento della giovinezza e quindi potessero riscoprire “che ciò che ogni idolo promette e non dona, quell’amore di cui abbiamo bisogno per poter amare noi stessi” a partire della riscoperta di essere amati per primi da Dio, per vivere “un’allegria dell’essere cristiani… autentico antidoto contro ogni idolo e in particolare contro l’idolo della giovinezza” (L’adulto che non c’è, o.p. p. 109.).

Adulti, questa volta, è il caso, davvero, di iniziare ad  esserci!

Dario Caturegli
consigliere unitario di AC

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